La storia di Sara, una madre di 34 anni, rappresenta una realtà complessa e inquietante per molte donne nel mondo del lavoro. Attraverso la sua testimonianza, emerge un quadro preoccupante delle pressioni e delle discriminazioni che le donne incinte e le neo-mamme devono affrontare. Sara ha deciso di contattare Fanpage.it per raccontare la sua esperienza, non solo per denunciare la sua situazione personale, ma per dare voce a tutte le donne che si trovano in difficoltà simili.
Sara lavora nella stessa azienda da quattro anni e, già all’epoca del colloquio, ha dovuto affrontare domande delicate e potenzialmente invasive riguardo alla sua vita familiare. Quando le è stato chiesto se desiderasse avere altri figli, ha risposto negativamente, consapevole che la sua carriera poteva dipendere da quella risposta. Questo è solo uno dei tanti segnali di come il mondo del lavoro possa essere ostile verso le donne che scelgono di avviare una famiglia.
La pressione psicologica è diventata sempre più intensa nel corso degli anni. Un episodio particolarmente inquietante è avvenuto il 23 dicembre di due anni fa, quando, in un dialogo apparentemente innocuo riguardante i dolci, il titolare ha fatto un commento tagliente: “Ma mica sei incinta? Chiuditi le tube perché qui figli non si possono fare”. Frasi come queste non solo sono inaccettabili, ma rivelano un atteggiamento discriminatorio che mina la dignità delle lavoratrici.
La situazione è peggiorata ulteriormente quando, il 15 febbraio dello scorso anno, Sara ha scoperto di essere incinta del suo secondo figlio. Ha deciso di informare subito il titolare, temendo una reazione negativa. La sua paura era fondata. Dopo aver chiesto un congedo parentale per gestire le sue nuove responsabilità, Sara è stata accolta con ostilità. Durante una discussione, il titolare ha criticato la sua decisione di andare in maternità prima del previsto, nonostante fosse in regola. “Mi ha fatto contattare dalle colleghe per dire che in azienda l’aria non era buona e che non voleva una persona con due figli”, racconta.
Nonostante le difficoltà, Sara ha fatto tutto il possibile per bilanciare lavoro e vita familiare. Ha sempre cercato di svolgere le visite mediche al di fuori del suo orario lavorativo per non disturbare il titolare. Tuttavia, anche quando ha dovuto assentarsi per un controllo, ha ricevuto commenti negativi. La sua dedizione al lavoro è stata evidente:
Ma questo non è bastato a placare le tensioni sul posto di lavoro.
La richiesta di congedo parentale ha segnato un punto di rottura. Sara racconta di essere andata a parlare con il titolare insieme a suo marito, ma la conversazione è rapidamente degenerata. “Ci ha cacciati, dicendo che non dovevo più presentarmi. Mi ha accusato di essere scorretta per aver chiesto il congedo e che avrei dovuto tornare prima per il bene dell’azienda”. Questo è un esempio lampante di come, in alcune aziende, le donne che decidono di avere una famiglia si trovino a dover affrontare scelte difficili e dolorose.
Dopo aver chiesto il congedo, Sara ha vissuto un isolamento sociale all’interno dell’azienda. “Nessun collega mi ha contattato per sapere come stessi; mi hanno tutti bloccata sui social e su WhatsApp”. Questo comportamento è emblematico di una cultura aziendale tossica, dove la solidarietà tra colleghi è sostituita dalla paura e dalla conformità. Quando ha tentato di contattare una collega, ha ricevuto una risposta che sembrava essere stata dettata dal titolare stesso, dimostrando come la pressione si estenda anche ai rapporti interpersonali.
Ora, con due figli piccoli e una situazione lavorativa precaria, Sara si sente sopraffatta. Il titolare ha chiarito che, dopo il congedo, si aspetta che lei si dimetta. Fortunatamente, suo marito ha un lavoro, ma la paura di non riuscire a trovare una nuova occupazione la tormenta. “Ho sempre detto di no a mio marito quando mi chiedeva un secondo bambino, temendo di perdere il lavoro. E ora che ho deciso di avere questo bambino, ho perso davvero il lavoro”.
Sara riflette su come la sua esperienza non sia un caso isolato. “Oggi nelle aziende ti chiedono se hai figli o se ne vuoi, ma è una cosa gravissima, va denunciata. Tante altre persone si trovano nella mia situazione”. La sua storia mette in luce un problema più ampio: la discriminazione basata sulla maternità e il modo in cui le donne sono spesso costrette a scegliere tra carriera e famiglia.
Da quando era giovane, Sara ha sempre lavorato per contribuire economicamente alla sua famiglia. Ha studiato e lavorato simultaneamente per pagarsi l’università, dimostrando una determinazione e una resilienza straordinarie. Ora, con la crisi delle nascite e il dibattito pubblico sulla mancanza di sostegno alle famiglie, la sua esperienza solleva domande fondamentali sulla cultura del lavoro in Italia. “Io ho fatto figli, ho la gioia più grande del mondo, ma sono sola a casa perché mio marito deve provvedere a noi”, conclude.
La sua testimonianza è un appello urgente per un cambiamento nelle politiche aziendali e sociali, affinché il lavoro e la famiglia possano coesistere senza sacrifici inaccettabili.