Un padre, famoso giornalista, racconta l’incubo del figlio, raccolto all’uscita del carcere di Pavia, dopo essere stato arrestato e pestato a sangue dai Carabinieri per aver cercato di filmare i cortei di Genova.
- Voleva soltanto filmare le manifestazioni
- E’ stato arrestato e pestato a sangue
- Contro di lui, soltanto un verbale-fotocopia
- Dice di aver perso i suoi ideali, io li ho ritrovati
- Un minuto dopo essere uscito dal carcere di Pavia, liberato da un magistrato genovese che non ha creduto all’atto di accusa stilato in fotocopia per tanti, resistenza e lesione a pubblico ufficiale durante la contestazione al G8, e che non ha neppure convalidato l’arresto, mio figlio ha disobbedito a me ed a sua madre.
Gli avevo chiesto di farmi vedere tutte le ferite coperte dagli abiti, mi ha detto di no, dovevo “accontentarmi” dello scempio visibilissimo sul viso, otto punti al sopracciglio, un occhio circondato dal viola dell’ecchimosi e invaso dal sangue, il labbro rotto, e della visione della schiena, piagata dalle manganellate e dai colpi calati col calcio del fucile. Oh, si vedevano anche i segni delle manette che gli erano state strette troppo fortemente ai polsi, ma dire manette è un errore, il termine tecnico è un altro che lui sa e io no, sono specie di ceppi che segnano la carne. I pantaloni scendevano perchè la cintura non c’era più, era stata sfilata di brutto all’ingresso in cella, rompendo tutti i passanti, e si vedeva qualcosa delle mutande piene di sangue. Però lui non ci ha lasciato vedere tutto, non voleva farci del male con quello “spettacolo”.
Erano le 19 di lunedì. Settantacinque ore prima mio figlio, che ha 26 anni ed è creatura gentile, tenera, prudente sino ad essere paurosetta, massima esplosione di esuberanza fisica il tifo urlato e cantato per il suo e mio Toro, aveva compiuto il grave errore di partire con amici da una località di mare in provincia di Savona per andare a Genova e filmare – lui che studia anche giornalismo televisivo a Torino e mette insieme documentari assortiti – qualcosa del Genoa Social Forum, della contestazione contro il G8. Filmare e basta, cercando immagini di protesta corale e coreografica, filmare accanto a un gruppo di vecchie signore che vendevano magliette-ricordo.
Una carica dura delle forze dell’ordine, è la zona dove è stato appena ucciso quel ragazzo, le signore alzano le mani, i suoi amici scappano, lui non può perchè cercando di allontanarsi si inciampa, cade, resta in ginocchio, a mani alzate. Gli piombano addosso, quelli delle forze dell’ordine, e gli spaccano la telecamera e la faccia, gli tatuano la schiena, gli martoriano tutto il corpo. Tanti vedono, nessuno può intervenire. Se lo disputano come ricettacolo di colpi poliziotti e carabinieri: ad un certo punto lui si trova con una mano nella manetta di un agente, l’altra nella manetta di un carabiniere. Implora una scelta, mica possono squartarlo.
Se lo aggiudicano i carabinieri, che lo portano via, gli dicono che un loro commilitone è stato ucciso, in una caserma, questo sarà lo spunto per altri pestaggi, stavolta specialmente con calci. C’è anche il passaggio in un ospedale per una medicazione, fra medici sbalorditi, indignati. Poi – ormai è notte – via su un torpedone verso il carcere di Pavia, la cella di isolamento: la richiesta di poter orinare prima del viaggio viene respinta con un pugno sul viso ferito e invito al fachirismo o al farsela addosso, comunque unica violenza fisica da parte della polizia penitenziaria. Poi la prigione, senza ora d’aria, con poco cibo e l’acqua calda del rubinetto. Passa tutto il sabato, passa tutta la domenica. Tocca agli infermieri del carcere inorridire per le ferite da medicare. Al lunedì mattina la decisione del magistrato, sollecitato da un bravo avvocato che sa smontare le accuse inventate sul verbale in fotocopia, come quella di detenere uno scudo in plastica, vistoso e imbarazzante, ancorchè strumento di difesa, non di offesa, ma inesistente, inventato. Fra la decisione del magistrato e la scarcerazione passano sei ore per le cosiddette pratiche burocratiche. Sei ore di vita libera tolte ad un ragazzo pienamente scagionato. Sei ore di attesa per noi nel forno davanti al carcere. E’ uscito senza la telecamera ed uno zainetto, spariti. Gli hanno ridato il telefonino, lo aveva in tasca, è stato distrutto dalle manganellate.
Ho saputo venerdì nella notte, da una telefonata dei carabinieri, che era in arresto e “stava benissimo”. Non mi hannno detto altro. Mi sono precipitato a Genova, comunque. Era l’alba di sabato, telefonando ai carabinieri ho saputo che ero stato stupido a mettermi in viaggio, chissà dove era mia figlio, Mi hanno detto comunque di un avvocato di ufficio, nome e cognome: ma al telefono c’era soltanto una voce meccanica. Ho trovato aiuti da giornalisti amici, ho trovato un bravo avvocato, la procura di Genova era aperta e collaborativa, ho saputo del trasferimento a Pavia. Ho goduto della posizione di giornalista per rintracciare qualche informazione, molta solidarietà . Ed anche per essere allenato a come avrei visto mio figlio: colleghi esperti mi hanno detto, sì, di prepararmi a vederlo conciato male. Ma nonostante tutto da venerdì notte alla fine della giornata di lunedì ho vissuto una situazione da “Missing”, il film americano sulla tragedia del Cile ma anche sull’angoscia che ti prende quando sai poco o nulla di una persona cara portata via, nella mio angosciata particolare esperienza di immaginarti il figlio con le sue ferite, per anestetizzarti all’impatto (non servirà a nulla, sarà comunque una cosa tremenda).
Un bravo magistrato ha interrogato, eseguito riscontri, ascoltato testimonianze, e non ha creduto alle accuse a mio figlio elencate in un verbale che pareva proprio prestampato, eguale per tanti, ha creduto al racconto dolente ed angosciato di un ragazzo nonostante tutto più stupito che indignato, più sereno che dolente. Nella giornata passata fuori dal carcere di Pavia ho parlato con tantissimi parenti e amici di altri di quei provvisori desaparecidos. Ho visto uscire dal carcere altri ragazzi coperti di ferite. Ho potuto anche pensare che a mio figlio è andata bene, non è stato colpito alla pancia, ha avuto un avvocato solerte, ha trovato i suoi genitori fuori dal carcere ad aspettarlo, nei limiti del possibile confortarlo. Una parlamentare che ha visitato il carcere ha parlato a noi in attesa di ragazzi feriti, distrutti, piangenti, brutalizzati direttamente dai colpi presi, indirettamente dalla situazione kafkiana dell’isolamento. Lui mi ha detto che le visite di parlamentari e consiglieri regionali sono state un balsamo comunque, per quel poter parlare serenamente di qualcosa con qualcuno, senza prendere colpi e ricevere insulti (una bella – cioè orribile – antologia, quella delle aggressioni verbali in pratica continue, l’ha messa per iscritto quando in carcere ha avuto una penna e qualche foglio, c’è davvero tutto per umiliare uno che patisce anche le parole).
Ho provato a chiedermi, da democratico assoluto, disperato, se proprio non è possibile ad un cittadino filmare della sua Italia, oltre che i monumenti e i tramonti e le feste di famiglia, anche una manifestazione di protesta senza dover essere brutalizzato, ridotto ad un manichino sanguinolento, sfregiato sul viso per sempre, da forze dell’ordine violente con i deboli e impotenti di fronte ai veri violenti, visibilissimi, colpibilissimi, le tute nere, nella fattispecie di Genova. Cercherò di saperlo per vie legali, confido nella legge. Mio figlio mi ha detto – spero perchè ferito ed umiliato, non perchè definitivamente portato ad una scelta – che rinuncia agli ideali. Ma non ci credo. E comunque ha rifornito di ideali me.